Jean

Mercoledì 13-9-1848
Incontrai Jean Viénot passeggiando sulle rive della Senna. In quei luoghi, sono in molti che si dilettano ad imbrattare tele ma vi è anche chi, come Jean, su quelle tele danza. Mi colpirono di lui i lunghi capelli spettinati e la barba incolta, e aveva l’aria di chi, pur passando le sue giornate in riva al fiume, non si concedeva da tempo il lusso di un bagno. Ad uno sguardo più attento, mi resi conto di essere attratto non tanto dal suo aspetto, quanto dalla sua persona vestita di un simile aspetto. Jean possedeva, per così dire, un’eleganza innata. Un’eleganza che non si acquista frequentando i salotti di Rue de la Victoire, e che mal si cela dietro ad una redingote dalle maniche consunte.
Mi accostai a lui.
– Bonsoir Monsieur.
– Buonasera.
– Parla la mia lingua?
Rispose alla mia domanda ignorandola, senza tuttavia ignorare me. Distolse per un istante gli occhi dal dipinto; il tempo necessario per piantarli nei miei e decidere che gli garbavo o che, quantomeno, avrebbe tollerato la mia presenza.
Con lo sguardo nuovamente immerso nel dipinto, chiese: “Cosa ve ne pare?”
Era un tipo bizzarro, Jean. Ascoltava quel che avevi da dire e rispondeva con muti cenni del capo o con frasi essenziali e concise. Raramente parlava di sé, e del suo passato venni a conoscenza un poco alla volta, intrattenendo delle brevi conversazioni.
“Cosa ve ne pare?”
Bastò uno sguardo per capire che non avrei dimenticato, lo sguardo di una donna.
Indossava un abito di chiffon blu di Prussia ed una pelle di vellutato alabastro; i capelli corvini scendevano in numerose volute sulle spalle, mentre i delicati lineamenti del volto erano appena turbati da spettrali riflessi rossastri. Tra le mani giunte teneva dei fiori di lavanda, un omaggio dell’artista alle iridi ricamate d’ambra. Mi sentii penetrato dall’intensità di quello sguardo, da quelle due meravigliose gemme sfavillanti di morte, che mi spogliavano di ogni pensiero e mi vestivano di malinconia. Il dipinto era quasi ultimato, solo le labbra erano appena accennate, bianche.
Dopo qualche giorno passai per caso nel luogo del nostro primo incontro, e lo trovai come l’avevo lasciato, ritto dinnanzi al dipinto, lo sguardo meditabondo. La dama attendeva, emettendo sospiri incolori dalle labbra di tela, e davvero non capii perché Jean tardasse a donare loro la vita.
Rivolsi un breve cenno di saluto. Mi rispose alla sua solita maniera:
– Cosa ve ne pare?
– Molto bella. Come procede?
– Come un autunno incolore.
Gettai uno sguardo alla tavolozza, e scorsi il pennello indugiare sopra un mare di porpora.
– Se non altro avete scelto il colore.
– Ho scelto quale colore non usare.
– Sembra quasi che voi non lo vogliate finire.
– Non ho fretta.
– Potreste dedicarvi ad altro, dopo averlo venduto.
– Non lo venderò.
– Ma come? Pensate alla fama!
– Non mi interessa.
– Non capisco, perché dipingete?
– Non posso fare altrimenti.
Restammo in silenzio qualche minuto, poi me ne andai.
Giunse l’autunno, portando con sé quel profumo d’intima melanconia che preme sul cuore quando le ombre calano dagli alti tetti e allungano le dita a sfiorare gli ultimi raggi estivi. Una sera trovai Jean stranamente seduto accanto alla tela, intento a contemplare le rosse venature di una foglia che non era riuscita a raggiungere le compagne nel loro giaciglio di fuoco.
– E’ molto bella, non trovate?
– Si – risposi incerto – è una foglia…
– L’ho vista tremare con grazia nell’aria e perdersi in una folata di vento.
Intravidi l’autunno nei suoi occhi, e delle lacrime sospese sulle lunghe ciglia nere.
– L’ho sentita cadere, è strano…
– Cosa?
– Questa storia delle foglie. Vi siete mai chiesto perché rinuncino alla vita?
– No, ma non credo sia un problema per l’albero, ne verranno altre uguali.
– Non sono uguali tra loro. Sapete cosa le distingue?
– No Jean…Vi sentite bene? Siete molto pallido.
– Le foglie cadono. Ognuna a modo suo, ognuna magnificamente, completamente diversa dalle altre per pochi istanti. Muoiono affermando la propria libertà e la propria bellezza. Se ne vanno in un alito di vento, posandosi infine al suolo, delicatamente. Credo sia questa, la vera bellezza: danzare tra la vita e la morte, carpire quell’attimo in cui esse si sfiorano e riuscire a conservarne intatta la memoria, ancora per qualche istante.
– Capisco. Come procede?
– Io…credo di esserci quasi…penso di aver capito.
– Le foglie?
– Si…no…le foglie…
– Quindi…rosso foglia?
– No.
Il mattino seguente trovai Jean riverso su un letto di foglie ai piedi del cavalletto, con le braccia stese in avanti e senza più una parola di cui farmi dono. Piansi come un bambino sul suo corpo esanime, incapace di separarmene. Credetti fosse morto a causa del freddo, o dell’indifferenza dei passanti, o forse a causa mia, della mia ingenuità? Non mi ero forse accorto del suo pallore la sera precedente? Era malato e non lo avevo intuito? Poi mi accorsi che tra le foglie, più rosse del solito, vi era una lettera.
 Mio caro amico, confido che sarete voi a trovarmi.
Ho iniziato a dipingere perché non volevo dimenticare nulla di Marie, non un singolo sguardo, un filo di capelli, un’ombra del viso. Non volevo svanisse nell’oblio, così dedicai ore ed ore ad ogni minuto dettaglio.

Ho dipinto febbrilmente dal mattino alla sera, mai soddisfatto, mai appagato, mai abbastanza stanco per smettere più di poche ore. Questa mia smania scomparve di colpo quando dovetti ritrarre le labbra: sebbene ricordassi il colore dei suoi baci, non riuscivo a trovarlo qua, su questa terra. Così spesi i miei ultimi soldi per acquistare tinte rosse, ogni volta pensando di aver finalmente trovato quella giusta. Poi mi trovavo davanti a lei, col pennello in mano, pronto per il tocco finale, e capivo che non era il colore giusto. Non era abbastanza intenso per le labbra di chi aveva sedotto i più illustri uomini di Parigi, né abbastanza delicato per quelle di chi aveva amato con tanta sincerità e candore. Non era un rosso comune quello che mi occorreva, e non sapevo dove trovarlo, se non nei miei ricordi. E tanto più l’immagine che evocavo mi appariva chiara, tanto più mi sembrava impossibile riuscire a riprodurla su questa tela. Ho passato queste ultime settimane alla ricerca di qualcosa che mi permettesse di concludere il quadro e ieri, dopo la nostra conversazione, finalmente l’ho trovato.
Da quando Marie se ne è andata non sono stato più in grado di volgere gli occhi alla vita, perché tutta la mia esistenza era tesa al perpetuarsi della sua memoria. Non potevo morire prima di completare il quadro, e non potevo completare il quadro senza morire, perché non avrei saputo di cosa vivere.
Era così, amico mio, che doveva finire, perché solo così, prima di lasciare questo mondo, potrò vedere ancora una volta Marie.
 Volsi lo sguardo alla tela, vidi Marie stringere i fiori, gli occhi lividi brillare di morte e, sulle labbra, il sangue di Jean.

Il responso

La poesia che propongo oggi è di Guido Gozzano, nato a Torino nel 1883 e scomparso prematuramente nel 1916, stroncato dalla tubercolosi. Gozzano fa parte della corrente letteraria nota come crepuscolarismo, che riprende alcuni aspetti del decadentismo francese, seppur con toni più pacati e spenti. Come osserva Squarotti, nell’introduzione al volume curato dal Rizzoli, “Si avverte subito, nella poesia di Gozzano, la presenza di una sorta di disperazione sulla possibilità di scrivere ancora versi, in una società, quale è quella borghese, che è sentita come del tutto aliena da qualsiasi forma di discorso poetico, intesa com’è in modo esclusivo all’utilità, al guadagno, all’economicità”. La soluzione adottata da Gozzano, e da molti suoi contemporanei, è quella di attuare una sorta di mimesi, attraverso la quale la poesia si spoglia delle sue vesti per vestirne di  più logore ed adatte alla nascente società borghese, riuscendo attraverso questo processo ad essere accettata dal nuovo pubblico, ormai assuefatto al consumo delle buone cose di pessimo gusto. In termini tecnici questo si traduce in una scelta di temi lontani dalla tradizione poetica italiana, con un’attenzione particolare verso oggetti e personaggi comuni, appartenenti alla vita quotidiana, che spesso non presentano qualità particolari, e di cui viene cantata proprio la mediocrità, il grigiore, l’inconsistenza semantica. Una delle poesie più note di Gozzano è La signorina Felicita ovvero la Felicità di cui Carmelo Bene riprese alcuni versi nel suo Amleto, e che probabilmente pubblicherò in futuro;  la poesia di oggi è Il responso, e vi consiglio di rileggerla più volte ad alta voce, sia per apprezzarne la musicalità sia per rendervi meglio conto del ritmo e dell’atmosfera che Gozzano riesce a creare con il suo stile, che potrei definire una sorta di prosa poetica.

Il responso

“Or vado, Marta, suona la mezzanotte…” O casa
di pace, o dolce casa di quell’amica buona…

L’alta lucerna ingombra segnava in luce i rari
pizzi dei suoi velari, ergendosi nell’ombra

come un piccolo sole… Durava nella stanza
l’eco d’una speranza data senza parole.

Nella zona di luce v’erano fiori, carte,
volumi, sogni d’arte… Contro una stampa truce

del Durero, una grigia volpe danese il terso
muso tendeva verso l’alto, con cupidigia.

C’era un profumo mite che mi tornava bimbo:
…un gracile corimbo di primule fiorite.

E c’era una blandizie mondana acuta fine:
…di essenze parigine, di sigarette egizie…

C’era un profumo forte che inebbriava i sensi:
…i bei capelli densi come matasse attorte…

Sotto il prodigio nero di quella chioma unica,
vestita di una tunica molle, di foggia “impero”.

Marta teneva gli occhi assorti ed un pugnale
fra mano, e non so quale volume sui ginocchi.

Tagliava, china in non so che taciturna indagine,
lentamente le pagine del gran volume intonso.

“La mezzanotte, Marta…” Non mi rispose, udivo
soltanto il ritmo vivo del ferro nella carta.

La taciturna amica con quel volume austero
m’apparve nel mistero d’una sibilla antica.

“Se le dicessi? Sa ella, forse, il responso,
forse nel libro intonso legge la Verità!”

E a quella donna, avezza a me come a un fratello
buono, mi parve bello dire la mia tristezza.

Ah! Se potessi amare! – Vi giuro, non ho amato
ancora: il mio passato è di menzogne amare.

– Mi piacquero leggiadre bocche, ma non ho pianto
mai, mai per altro pianto che il pianto di mia Madre.

Come una sorte trista è sul mio cuore, immagine
(se vi piace l’immagine un poco secentista)

d’un misterioso scrigno d’ogni tesoro grave,
me ne gittò la chiave l’artefice maligno,

l’artefice maligno, in chi sa quali abissi…
Marta, se rinvenissi la chiave dello scrigno!

Se al cuore che ricusa d’aprirsi, una divota
rechi la chiave ignota dentro la palma chiusa,

per lei che nel deserto farà sbocciare fiori,
saran tutti i tesori d’un cuore appena aperto.

Perché, Marta, non sono cattivo, non è vero?
O Marta non è vero, dite, che sono buono?

Molte mani soavi apersi a poco a poco
come si fa nel gioco, ma non trovai le chiavi.

O dita appena tocche, forse amerò domani!
e abbandonai le mani e ribaciai le bocche…

Ma pesa la menzogna terribilmente! O maschera
fittizia che mi esaspera nell’anima che sogna!

Perché, Marta, non sono cattivo, non è vero?
O Marta non è vero, dite, che sono buono?

Tutte, persin le brutte, mi danno un senso lento
di tenerezza… “Sento” – risi – “di amarle tutte!

Non sorridete, Marta?” Non sorrideva. Udivo
soltanto il ritmo vivo del ferro nella carta.

E ripensavo: – Se ella, forse, il responso,
forse nel libro intonso legge la Verità -.

“Nel cuore senza fuoco già l’anima è più stanca,
più d’un capello imbianca, qui, sulla tempia, un poco.

Ogni sera più lunge qualche bel sogno è fatto:
aspetta il cuore intatto l’amore che non giunge

O beva chi non beve, doni chi si rifiuta
prima che sia compiuta la mia favola breve!

Fanciullo, e verrai tu, compagno alato della
seconda cosa bella – il non essere più –

verrai con bende e dardi, anche, Fanciullo, a me?
O amare prima che si faccia troppo tardi!

L’amore giungerà, Marta?” (Nel libro intonso,
pensavo, ecco il responso lesse di Verità)

“l’Amore come un sole” (durava nella stanza
l’eco d’una speranza data senza parole)

“irraggerà l’assedio dell’anima autunnale,
se pure questo male non è senza rimedio…”

Ella dal Libro, in quiete, tolse l’arme, mi porse
l’arme. Rispose: “Forse! – Perché non v’uccidete?”.

Monotonia

Ho deciso di fare una breve introduzione ai post che pubblico nella sezione letteratura. La poesia di  oggi è di un poeta greco di inizio ‘900 che stimo molto e che non è particolarmente noto, almeno tra le mie conoscenze: si tratta di Costantino Kavafis. Tendenzialmente cerco sempre di leggere le poesie in lingua originale, quando mi è possibile, dunque se siete appassionati di greco vi segnalo l’edizione della Mondadori, che presenta il testo originale a fianco.
Tornando a Kavafis, si tratta di un’autore che affonda le radici della propria poetica nella mitologia greca e nella storia antica, ragion per cui viene da molti definito un poeta neo-ellenico; da questo punto di vista la poesia che presento oggi è un po’ atipica, nel senso che non presenta i tratti caratteristici della sua poetica, tuttavia, per rimediare, pubblicherò altre sue poesie in futuro, in modo che abbiate un’idea più precisa della peculiarità e delle doti di questo eccezionale autore.

Monotonia

Segue a un giorno monotono un nuovo
giorno, monotono, immutabile. Accadranno
le stesse cose, accadranno di nuovo.
Tutti i momenti uguali vengono, se ne vanno.

Un mese passa e un altro mese accompagna.
Ciò che viene s’immagina senza calcoli strani:
è l’ieri, con la nota noia stagna.
E il domani non  sembra più domani.

-Kavafis
traduzione di Filippo Maria Pontani

Eos

Ho udito il vagito d’un infante
infrangersi come una tenue onda
di risacca contro l’aspra rupe
di sogni spezzati che chiaman
vita.

Ho visto la morte nascondersi
in un angolo e versare lacrime
dalle orbite vuote, mentre il seno
turgido della madre allattava
il corpo tumefatto
di suo figlio.

Ho assistito ad una cupa sfilata
di maschere deformi che furon
volti e ora stanno immobili nella
posa che solo la disperazione
nata dalla gioia sa incidere
sulle lapidi dei nostri cuori.

All’amato me stesso

Quattro. Pesanti come un colpo.
“A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”.
Ma uno come me dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?

S’io fossi piccolo come il grande oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde con l’alta marea,
accarezzando la luna.

Dove trovare un’amata uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!

O s’io fossi povero come un miliardario.. Che cos’è il denaro per l’anima?
Un ladro insaziabile s’annida in essa:
all’orda sfrenata di tutti i miei desideri
non basta l’oro di tutte le Californie!

S’io fossi balbuziente come Dante o Petrarca…
Accendere l’anima per una sola, ordinarle coi versi…
Struggersi in cenere.
E le parole e il mio amore sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente senza lasciar traccia vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.

O s’io fossi silenzioso, umil tuono… Gemerei stringendo
con un brivido l’intrepido eremo della terra…
Seguiterò a squarciagola con la mia voce immensa.

Le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
s’io fossi appannato come il sole…

Che bisogno ho io d’abbeverare col mio splendore
il grembo dimagrato della terra?

Passerò trascinando il mio enorme amore
in quale notte delirante e malaticcia?

Da quali Golia fui concepito
così grande,
e così inutile?

-Majakovskij

Sezione Letteratura – Premesse

Questa sezione è dedicata alla condivisione e discussione di opere letterarie. A causa di mie particolari fissazioni e dei miei personali gusti non credo che posterò nulla che vada oltre la metà del ‘900. Potreste notare una certa inclinazione verso la letteratura russa ed inglese; questo è dovuto al fatto che ultimamente mi sto concentrando su questi due filoni, tuttavia in questo blog cercherò di non fissarmi troppo a lungo su determinati autori o temperie culturali.

Auschwitz

Non ci sono parole per Auschwitz
Non c’è musica per Auschwitz
Non si può comprendere Auschwitz

Una donna alla quale viene sottratto suo figlio,
un bambino al quale viene sottratto il futuro,
una ragazza alla quale viene sottratto il pudore.

Sono fiumi di vomito e di sangue
sono respiri spezzati, corpi dilaniati
sono occhi resi ciechi dalle lacrime

E’ il volto di chi non capisce
E’ il volto di chi ha paura
E’ il volto di chi non si piegherà
neanche di fronte alla morte.

E’ la storia di una ragazza
senza più capelli da pettinare
senza più vestiti da indossare
senza più denti con cui ridere

E’ l’ombra di un amore lacerato,
di chi ha dipinto un volto tra le stelle
e continua con amore a guardarle
finché esse non troveranno più uno specchio
in quegli occhi un tempo accesi di passione.

In questo luogo i vermi non si nutrono di cadaveri
ma di sogni che marciscono tra il ferro e la disperazione.

In questo luogo il sole non splende, non riscalda,
ma brucia la pelle di chi è destinato all’oblio.

In questo luogo non vi sono uccelli che cantano
perché non può esserci vita
quando la morte stessa è ridotta in catene.
E’ un inferno dove ardono corpi ed anime
putrida fogna dove strisciano i più terribili incubi
realtà distorta dove vita e morte si confondono
in una danza bestiale.

Non si può raccontare la valanga di orrore che scende
dalle montagne di capelli, di scarpe, di pettini
senti il cuore perdere un battito e poi correre,
senti le lacrime premere contro i tuoi occhi
senti urla strazianti nella tua testa,
e ancora non capisci.

Estate 2010

Le parole d’amore

Le parole d’amore sono ali
di silenziosa cenere, che lievi
si posano sui cuori di chi s’ama

Le parole d’amore sono tali
da render goffo il loro stesso nome
e me, che nel cuor ne cerco ancor di nuove

E si fa presto a dire: ti amo,
a prendere i tuoi occhi e chiuderli
tra le mura di due parole sole

Si fa presto ad imbrattar la carta
con versi stucchevoli e lungagginosi,
a ridurre la poesia ad umil sarta
che intreccia rime per gli occhi cisposi
di chi ama e senza parlar si spiega.

Ma io, nella solitudine d’un chiostro,
su questo foglio di niveo candore,
vorrei trovare una picciol piega
ove nascondere un fiore d’inchiostro
per i soli occhi del mio amore.

Endymion

Nella bruma mattutina si dissolvono i sogni dimenticati, se ne vanno in punta di piedi, con le prime luci dell’alba, verso un luogo lontano, pieno di idee inespresse, di ritratti abbozzati, di tele abbandonate sul fianco di mura piene di calcinacci. Qui si ammassano gli uni sugli altri e aspettano, in un’orgia polverosa, l’arrivo di nuovi compagni.
Al centro di questa stanza siede una bambola di pezza che volge gli occhi di bottone alle pareti senza finestre, e con gesti lenti e precisi si cuce addosso ora quel sogno, ora quel ricordo, ora quella sensazione a cui non sappiamo dare un nome. Cuce continuamente, senza sosta, poi si alza, vestita di stracci, e muove un passo. Ed ecco che le gambe le tremano, si piegano, e infine si spezzano, perché intessute di una seta troppo fine per sostenere il peso della propria esistenza. Con la testa china ed i bottoni che iniziano a sfilarlesi dal viso riprende il suo lento lavorio, aspettando la notte seguente e nuovi sogni con cui cercare una forma che le appartenga.
Una notte trovò un frammento di vetro colorato proprio accanto al suo letto. Lo osservò piena di curiosità, poi lo prese tra le mani ed iniziò ad esaminarlo. In breve tempo si rese conto che poteva tagliare ogni cosa con quel pezzo di vetro: parole, ricordi, sogni, persino sé stessa.
Pensò quindi di aver finalmente trovato quel che le occorreva per fabbricare un cuore: qualcosa che avrebbe potuto conficcarsi nel petto e che non si sarebbe staccato come tutto ciò che continuava, forse maldestramente, a cucirsi addosso. Non sapeva perché volesse un cuore, ma sentiva che con quello avrebbe potuto finalmente realizzare qualcosa di nuovo, qualcosa che non si sarebbe scucito dopo qualche passo, qualcosa con cui forse avrebbe potuto catturare quei bagliori di luce che vedeva attraversare la stanza di tanto in tanto, e che non sapeva da dove venissero.
Pensò a dove cucirlo: se fosse meglio metterselo al centro del petto, a destra o a sinistra, o se fosse stato meglio tenerlo in mano, per averlo sempre sotto controllo e non perderlo mai. Mentre era assorta in questi pensieri una luce danzante attraversò la stanza e si posò sul cristallo che teneva tra le mani, facendolo brillare e proiettando sulla parete la fugace immagine di una spiaggia indorata dal tramonto. Per la sorpresa lasciò cadere il cuore sul pavimento, ed esso si ruppe in tante schegge colorate. Disperata cercò di ricomporne i pezzi, ma più cercava di metterne insieme le parti spezzate più le sue mani si riempivano di tagli. Alla fine desistette, e capì di voler piangere e di non poterlo fare. Si trascinò quindi fino ad un angolo della stanza, decisa a passare il resto dei suoi giorni immobile sul pavimento, come i frammenti di quel raro cristallo che si era lasciata sfuggire dalle mani.
Trovò, in quell’angolo di ricordi dimenticati, una scatola piena di maschere, ed uno specchio. Subito pensò di romperlo per farne tanti nuovi cuori, ma si arrestò quando vide la propria immagine: i suoi occhi vuoti, le sue labbra deformi, i suoi capelli di lana, i ritagli e le foto che si era cucita addosso. Guardò nella scatola e trovò una maschera con gli angoli della bocca e degli occhi piegati all’ingiù, e subito la indossò per poi specchiarsi e scoprirsi, d’un tratto, triste.
L’avere finalmente trovato un’espressione la rallegrò al punto da farle cercare una nuova maschera, per potersi vedere, perché no, anche felice. Ed eccola ridere davanti allo specchio con il suo nuovo viso, i suoi nuovi occhi, le sue nuove labbra. Passò le notti seguenti a provare nuove maschere, e a sperare che ne arrivassero di nuove ancora. Arrivarono dei capelli e degli occhi nuovi, dei vestiti, persino! E così iniziò a vestirsi di novità, e si accorse che riusciva anche a stare in piedi usando delle nuove gambe di coccio che aveva trovato vicino allo scatolone.
Cambiava spesso maschera, ma presto iniziò ad annoiarsi, a cercare nuove espressioni, nuovi volti da indossare, volti qualsiasi purché nuovi, e non si preoccupava più di cercarne di adatti ai suoi sentimenti, cercava piuttosto delle nuove espressioni a cui adattare i propri stati d’animo, i propri pensieri, e quelli che trovava sparsi per la camera. Passarono così delle lunghe notti, tutte uguali tra loro, che la videro zoppicare su e giù per la stanza, misurare la grandezza di quell’universo che le era parso così grande, sconfinato, quando sedeva immobile al centro di esso.
Adesso scopriva ad ogni passo un nuovo limite, nuovi ostacoli, un labirinto che si stendeva silenzioso intorno a lei, sempre uguale a sé stesso. Ad ogni passo sentiva svanire l’illusione di incontrare quel mondo che aveva immaginato, e che si era pazientemente cucita addosso.
Ad ogni passo si staccavano dal suo delicato corpo dei ritagli di giornale, delle pagine strappate da qualche libro, delle immagini sbiadite. Ad ogni passo si sentiva più debole, stanca, incapace di proseguire, così sedette sconsolata accanto ad una pila di libri.
Notò che si trattava di volumi completi e non dei soliti frammenti che trovava sparsi per la stanza e sul proprio corpo, e che tutti quanti avevano lo stesso titolo: Endymion. Iniziò a leggerne i primi versi quando sentì un suono che non aveva mai udito prima di allora: si trattava di un suono ritmico, sommesso, udibile soltanto da chi, come lei, aveva imparato a convivere con il silenzio. Seguendo questo suono con lo sguardo vide, non lontano da lei, il corpo di un uomo che giaceva addormentato su di un giaciglio illuminato da una luce eterea. Rimase a guardarlo ore, studiando attentamente ogni particolare della sua pelle, così simile alla sua, ma omogenea e liscia. I capelli scendevano lunghi sulle sue spalle in riccioli morbidi come tralci di vite, e nulla turbava i suoi lineamenti delicati e levigati dal sonno. Il suo petto forte continuava ad alzarsi ed abbassarsi ritmicamente, avvolto da lenzuoli di lino, e lei rimase colpita da quello strano movimento, da quel tenue respiro che segnava in maniera così delicata la distanza che li separava.
Nelle notti che seguirono rimase accanto a quel giovane: temeva che toccandolo potesse svanire come il mondo da lei immaginato e dissoltosi un poco alla volta davanti ai propri occhi, tuttavia più il tempo passava più sentiva crescere dentro di sé il desiderio di destarlo, di vedere di che colore fossero i suoi occhi, di ascoltare il suono della sua voce, di sfiorare le sue mani e le sue labbra. Decise infine che lo avrebbe svegliato, ma non prima di essersi cucita un vestito adatto all’occasione, non prima di aver trovato la giusta maschera con cui accogliere lo sguardo del ragazzo. Incominciò quindi a rovistare in quel polveroso marasma, e dopo molte notti di penosa ricerca trovò una maschera di finissima porcellana, con la quale sostituì una delle tante che le erano rimaste sul volto. Per l’abito impiegò ancor più tempo: iniziò ad intessere i sogni più luminosi che trovava in giro ed aspettare, pazientemente, che ne arrivassero di nuovi. A volte trascorreva intere notti nell’attesa di un bagliore dorato da poter ricamare sul suo nuovo vestito, e in questa attesa continuava a pensare al momento in cui, finalmente, lui le avrebbe parlato.
Quando il vestito fu ultimato decise di andare allo specchio per ammirare il proprio lavoro, e davanti ai suoi occhi apparve una donna bellissima, bellissima ed immobile. Capì in quel momento che ciò che aveva visto in quel ragazzo, la vita, quel lento ed incessante movimento che ne increspava le labbra, non poteva essere sostituito da quella maschera per più di qualche istante. Capì che sarebbe stata per lui immutabile, fissa in quella forma, in quell’espressione statica e perfetta, esattamente come adesso le appariva lui, immerso nel suo profondo sonno. Soffrì al pensiero di non poter mutare questa sua nuova forma, di avere sì un’espressione, ma unica, immobile, immutabile. Afferrata con rabbia la maschera la gettò in terra, rompendola in mille pezzi. Tornò ad avere davanti agli occhi quell’espressione indefinita, quei due bottoni al posto degli occhi e quelle labbra appena abbozzate. Rimase davanti allo specchio ancora un momento, poi lo prese e lo gettò a terra, dove si ruppe con un rumore sordo. Pensò che l’unico modo che aveva di eliminare quella barriera che si frapponeva tra loro due fosse quella di ottenere un cuore, di essere viva anche lei, o di far si che lui perdesse il suo. Aveva ormai capito, osservando il ragazzo, che fabbricarne uno sarebbe stato impossibile, e non sapendo come vivere decise di uccidere il suo amato, per poter finalmente coesistere. Preso uno dei frammenti dello specchio si diresse verso il letto dove giaceva immerso nel suo sonno il giovane. Vide il petto alzarsi ed abbassarsi, sentì la vita pulsare sotto quella pelle liscia e perfetta, alzò la mano e la tenne sospesa qualche istante sopra di lui, gettando un’ombra sulle sue gote rosee, poi la abbassò una, due, tre volte, tagliando, lacerando, dilaniando, subito dopo svenne.
Quando si riprese, il suo vestito giaceva in brandelli ai piedi del letto ed il giovane era ancora addormentato tra le lenzuola di candido lino. Raccolte le sue vesti stracciate, le usò per crearsi un giaciglio accanto al ragazzo. Decise di non porre fine al suo sonno e di amarlo in silenzio, in quella forma che forma non era, e di sussurrargli all’orecchio le storie che aveva raccolto, inventato, ricamato. Decise di passare il resto di quella sua impalpabile esistenza al suo fianco, senza poterlo toccare, senza potergli parlare, ma accompagnando il suo respiro coi sospiri muti della sua anima.

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